Le contraddizioni della fragilità
La galleria Eduardo Secci è lieta di inaugurare giovedì 9 settembre 2021 (dalle ore 16.00 alle 20.00), negli spazi espositivi di Firenze (Piazza Carlo Goldoni 2), la mostra “Le contraddizioni della fragilità” a cura di Angel Moya Garcia. Sino al 6 novembre, la collettiva presenta le opere di Diana Al-Hadid, Alejandro Almanza Pereda, Andrea Galvani, José Carlos Martinat e Matthew Ritchie.
L’ambito di indagine della mostra si incentra sulle varie declinazioni in cui emerge il concetto stesso di fragilità, scrutando le contraddizioni che possono celarsi nella sua definizione attraverso l’analisi di alcuni tra i diversi contesti in cui viene applicato il termine: sociali, culturali, economici, scientifici e filosofici. Una serie di accezioni e interpretazioni in cui spesso la fragilità viene considerata come una qualità spregiativa che ci indirizza verso il dubbio e l’incertezza, il fallimento e la sua accettazione o la debolezza delle nostre convinzioni. Questo atavico e ipotetico antagonismo, causato da una netta opposizione tra fragilità e stabilità, viene messo in discussione nella mostra attraverso l’evidenza della superficialità di certe considerazioni categoriche e i pregiudizi dei nostri principi nel rincorrere un’obiettività assoluta che ci consenta di raggiungere una solidità emotiva, cognitiva e identitaria definitiva.
La galleria Eduardo Secci è lieta di inaugurare giovedì 9 settembre 2021 (dalle ore 16.00 alle 20.00), negli spazi espositivi di Firenze (Piazza Carlo Goldoni 2), la mostra “Le contraddizioni della fragilità” a cura di Angel Moya Garcia. Sino al 6 novembre, la collettiva presenta le opere di Diana Al-Hadid, Alejandro Almanza Pereda, Andrea Galvani, José Carlos Martinat e Matthew Ritchie.
L’ambito di indagine della mostra si incentra sulle varie declinazioni in cui emerge il concetto stesso di fragilità, scrutando le contraddizioni che possono celarsi nella sua definizione attraverso l’analisi di alcuni tra i diversi contesti in cui viene applicato il termine: sociali, culturali, economici, scientifici e filosofici. Una serie di accezioni e interpretazioni in cui spesso la fragilità viene considerata come una qualità spregiativa che ci indirizza verso il dubbio e l’incertezza, il fallimento e la sua accettazione o la debolezza delle nostre convinzioni. Questo atavico e ipotetico antagonismo, causato da una netta opposizione tra fragilità e stabilità, viene messo in discussione nella mostra attraverso l’evidenza della superficialità di certe considerazioni categoriche e i pregiudizi dei nostri principi nel rincorrere un’obiettività assoluta che ci consenta di raggiungere una solidità emotiva, cognitiva e identitaria definitiva.
- Alejandro Almanza Pereda, Contraddizioni della fragilità_027
- Alejandro Almanza Pereda, Contraddizioni della fragilità_067
- Contraddizioni della fragilità_007
- Contraddizioni della fragilità_004
- Diana Al-Hadid, Contraddizioni della fragilità_059
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- José Carlos Martinat, Contraddizioni della fragilità_023
- HUACO FRONT not floor
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- Matthew Ritchie, Contraddizioni della fragilità_044
- Matthew Ritchie, Contraddizioni della fragilità_054
Nata ad Aleppo, in Siria, nel 1981, Al-Hadid è cresciuta nel Midwest americano. Ha ricevuto un M.F.A. dalla Virginia Commonwealth University nel 2005 e ha frequentato la prestigiosa Skowhegan School of Painting and Sculpture nel 2007. Diana Al-Hadid è nota per una pratica artistica che spazia in termini di linguaggi e dimensioni e che esamina i contesti storici e le prospettive alla base delle nostre assunzioni materiche e culturali. Le sculture di Al-Hadid, i pannelli e i lavori su carta sono formati da strati multipli di materia e storia. Le sue ricche allusioni formali attraversano sculture e discipline, traendo inspirazione non solo dalla storia di antiche civiltà ma anche dalla storia dei materiali stessi. Il lavoro di Al-Hadid si rifà ad una serie di fonti che spaziano dagli Old Masters all’epoca d’oro dell’arte islamica. Le sculture di larga scala di Al-Hadid intrecciano elementi figurativi e architettonici in oggetti allusivi che decontestualizzano le circostanze storiche a cui si riferiscono. Evolvendosi dagli studi materiali delle sue sculture, i pannelli tridimensionali di Al-Hadid enfatizzano la gestualità della sua pennellata veloce. Descritto da Al-Hadid come “qualcosa tra l’affresco e l’arazzo”, il suo processo è unico ed interamente additivo. Buchi e spazi vuoti vengono formati non tramite forature ma attraverso il dripping controllato, metodicamente rinforzato in modo che sia l’immagine a dettare la struttura. Queste opere sono state realizzate come oggetti sospesi, interventi architettonici e, più recentemente, come installazioni all’aperto.
Le sue opere, conosciute a livello internazionale, sono state esposte in importanti musei, spazi e gallerie tra cui: Galerie Isa, Ballard Estate, Mumbai, India (2021); The Momentary, Bentonville, AR (2021); The Welch Gallery, Georgia State University, Atlanta, GA (2021); Galleri Brandstrup, Oslo (2019); The Frist Art Museum and Cheekwood Estate and Gardens, Nashville (2019); Berggruen Gallery, San Francisco (2019); The Bronx Museum of the Arts, New York (2018); Madison Square Park Conservancy, New York (2018); Marianne Boesky Gallery, New York (2017); Mills College Art Museum, Oakland (2017); Newcomb Art Museum, Tulane University, New Orleans (2016); The Vienna Secession, Vienna (2014); Nolli’s Orders, Akron Museum of Art, Akron (2013); Marianne Boesky Gallery, New York (2012); Nasher Sculpture Center, Dallas (2011); Hammer Museum, Los Angeles (2010); Perry Rubenstein Gallery, New York (2007). Ha esposto in numerose mostre collettive, tra cui alla Shulamit Nazarian, Los Angeles, CA (2021); Kasmin Gallery, New York (2021); Orlando Museum of Art, Orlando, FL (2021); Lahore Biennale, Lahore, Pakistan (2020); Academy of Arts and Letters, New York, NY (2020); University of South Florida Contemporary Art Museum, Tampa, FL (2020); Sint-Janshospitaal, Bruges, Belgio (2020); Hauser & Wirth, New York, NY (2020); San Jose Museum of Art, San Jose, CA (2020); Museum of Contemporary Art Jacksonville, Jacksonville, FL (2020); Columbus Museum of Art, Columbus, OH (2019); Rabat Biennale, Rabat, Morocco (2019); Jameel Art Centre Dubai, United Arab Emirates (2019); Lehmann Maupin, New York, NY (2019); Phillips, New York, NY (2019); Eduardo Secci Contemporary, Firenze, Italia (2019); Arsenal Contemporary, New York (2018); Fort Mason Center for Arts & Culture, San Francisco (2017); John Berggruen Gallery, San Francisco (2016); Galerie Isa, Mumbai (2015); Friedman Benda Gallery, New York (2014); The Farjam Foundation, Dubai (2014); Musèe Granet, Aix-en-Provence (2013); Haugar Art Museum, Tønsberg (2012); RH Gallery, New York (2011); Marianne Boesky Gallery, New York (2011); Thessaloniki State Museum of Contemporary Art, Thessaloniki (2011); The Saatchi Gallery, London (2009); Center for Arts and Culture, Montabaur (2008).
Nata ad Aleppo, in Siria, nel 1981, Al-Hadid è cresciuta nel Midwest americano. Ha ricevuto un M.F.A. dalla Virginia Commonwealth University nel 2005 e ha frequentato la prestigiosa Skowhegan School of Painting and Sculpture nel 2007. Diana Al-Hadid è nota per una pratica artistica che spazia in termini di linguaggi e dimensioni e che esamina i contesti storici e le prospettive alla base delle nostre assunzioni materiche e culturali. Le sculture di Al-Hadid, i pannelli e i lavori su carta sono formati da strati multipli di materia e storia. Le sue ricche allusioni formali attraversano sculture e discipline, traendo inspirazione non solo dalla storia di antiche civiltà ma anche dalla storia dei materiali stessi. Il lavoro di Al-Hadid si rifà ad una serie di fonti che spaziano dagli Old Masters all’epoca d’oro dell’arte islamica. Le sculture di larga scala di Al-Hadid intrecciano elementi figurativi e architettonici in oggetti allusivi che decontestualizzano le circostanze storiche a cui si riferiscono. Evolvendosi dagli studi materiali delle sue sculture, i pannelli tridimensionali di Al-Hadid enfatizzano la gestualità della sua pennellata veloce. Descritto da Al-Hadid come “qualcosa tra l’affresco e l’arazzo”, il suo processo è unico ed interamente additivo. Buchi e spazi vuoti vengono formati non tramite forature ma attraverso il dripping controllato, metodicamente rinforzato in modo che sia l’immagine a dettare la struttura. Queste opere sono state realizzate come oggetti sospesi, interventi architettonici e, più recentemente, come installazioni all’aperto.
Le sue opere, conosciute a livello internazionale, sono state esposte in importanti musei, spazi e gallerie tra cui: Galerie Isa, Ballard Estate, Mumbai, India (2021); The Momentary, Bentonville, AR (2021); The Welch Gallery, Georgia State University, Atlanta, GA (2021); Galleri Brandstrup, Oslo (2019); The Frist Art Museum and Cheekwood Estate and Gardens, Nashville (2019); Berggruen Gallery, San Francisco (2019); The Bronx Museum of the Arts, New York (2018); Madison Square Park Conservancy, New York (2018); Marianne Boesky Gallery, New York (2017); Mills College Art Museum, Oakland (2017); Newcomb Art Museum, Tulane University, New Orleans (2016); The Vienna Secession, Vienna (2014); Nolli’s Orders, Akron Museum of Art, Akron (2013); Marianne Boesky Gallery, New York (2012); Nasher Sculpture Center, Dallas (2011); Hammer Museum, Los Angeles (2010); Perry Rubenstein Gallery, New York (2007). Ha esposto in numerose mostre collettive, tra cui alla Shulamit Nazarian, Los Angeles, CA (2021); Kasmin Gallery, New York (2021); Orlando Museum of Art, Orlando, FL (2021); Lahore Biennale, Lahore, Pakistan (2020); Academy of Arts and Letters, New York, NY (2020); University of South Florida Contemporary Art Museum, Tampa, FL (2020); Sint-Janshospitaal, Bruges, Belgio (2020); Hauser & Wirth, New York, NY (2020); San Jose Museum of Art, San Jose, CA (2020); Museum of Contemporary Art Jacksonville, Jacksonville, FL (2020); Columbus Museum of Art, Columbus, OH (2019); Rabat Biennale, Rabat, Morocco (2019); Jameel Art Centre Dubai, United Arab Emirates (2019); Lehmann Maupin, New York, NY (2019); Phillips, New York, NY (2019); Eduardo Secci Contemporary, Firenze, Italia (2019); Arsenal Contemporary, New York (2018); Fort Mason Center for Arts & Culture, San Francisco (2017); John Berggruen Gallery, San Francisco (2016); Galerie Isa, Mumbai (2015); Friedman Benda Gallery, New York (2014); The Farjam Foundation, Dubai (2014); Musèe Granet, Aix-en-Provence (2013); Haugar Art Museum, Tønsberg (2012); RH Gallery, New York (2011); Marianne Boesky Gallery, New York (2011); Thessaloniki State Museum of Contemporary Art, Thessaloniki (2011); The Saatchi Gallery, London (2009); Center for Arts and Culture, Montabaur (2008).

Andrea Galvani (nato in Italia nel 1973) vive e lavora da molti anni tra New York e Città del Messico. La sua ricerca concettuale si avvale di fotografia, disegno, scultura, performance, neon, materiali d’archivo e grandi audio e video installazioni che vengo sviluppate intorno all’ architettura degli spazi espositivi. I suoi progetti sembrano aumentare la nostra consapevolezza, attingendo a concetti e strumenti provenienti da diverse discipline e assumendo spesso linguaggi e metodologie di carattere scientifico.
Il lavoro di Galvani è stato esposto a livello internazionale in importanti musei e spazi istituzionali tra cui ricordiamo: il Whitney Museum di New York, la 4th Moscow Biennale of Contemporary Art di Mosca, Mediations Biennale di Poznan, in Polonia, Aperture Foundation, New York; The Calder Foundation, New York; Pavilion – Center for Contemporary Art and Culture, Bucharest; il Mart Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto; Museo Macro, Roma; GAMeC, Bergamo; De Brakke Grond, Amsterdam; Den Frie Centre of Contemporary Art, Copenaghen; Sculpture Center, New York; e molti altri. Le sue opere fanno parte delle principali collezioni pubbliche e private in Europa, nelle Americhe, in Asia e in Africa, tra cui: la Collezione permanente presso il Dallas Museum of Art, Texas; Deutsche Bank Collection, Londra; Artist Pension Trust, New York; la Contemporary Art Society, Aspen Collection, New York; la UniCredit Art Collection, Milano; the Permanent Collection of the United States Library of Congress, Prints and Photographs Division, Washington, DC; il Mart Museum of Modern and Contemporary Art di Trento e Rovereto; la 500 Capp Street Foundation, San Francisco; MAXXI Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma; The Armory Show, New York e MACRO Testaccio, Roma. Tra i moltissimi grant e residency internazionali ricordiamo la sua partecipazione a Location One International Artist Residency Program a New York (2008), LMCC Lower Manhattan Cultural Council (2009), e il MIA Artist Space / Columbia University Department of Fine Arts (2010). Nel 2011 ha ricevuto il New York Exposure Prize ed è stato nominato per il prestigioso Deutsche Börse Photography Prize. Nel 2016, il Museo del Mart di Trento e Rovereto ha presentato la prima retrospettiva midcareer di Galvani in Europa. Nel 2017, il suo lavoro è stato selezionato per rappresentare la Deutsche Bank Collection a Frieze New York. Nel 2019 ha ricevuto il prestigioso Audemars Piguet Prize.
Andrea Galvani (nato in Italia nel 1973) vive e lavora da molti anni tra New York e Città del Messico. La sua ricerca concettuale si avvale di fotografia, disegno, scultura, performance, neon, materiali d’archivo e grandi audio e video installazioni che vengo sviluppate intorno all’ architettura degli spazi espositivi. I suoi progetti sembrano aumentare la nostra consapevolezza, attingendo a concetti e strumenti provenienti da diverse discipline e assumendo spesso linguaggi e metodologie di carattere scientifico.
Il lavoro di Galvani è stato esposto a livello internazionale in importanti musei e spazi istituzionali tra cui ricordiamo: il Whitney Museum di New York, la 4th Moscow Biennale of Contemporary Art di Mosca, Mediations Biennale di Poznan, in Polonia, Aperture Foundation, New York; The Calder Foundation, New York; Pavilion – Center for Contemporary Art and Culture, Bucharest; il Mart Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto; Museo Macro, Roma; GAMeC, Bergamo; De Brakke Grond, Amsterdam; Den Frie Centre of Contemporary Art, Copenaghen; Sculpture Center, New York; e molti altri. Le sue opere fanno parte delle principali collezioni pubbliche e private in Europa, nelle Americhe, in Asia e in Africa, tra cui: la Collezione permanente presso il Dallas Museum of Art, Texas; Deutsche Bank Collection, Londra; Artist Pension Trust, New York; la Contemporary Art Society, Aspen Collection, New York; la UniCredit Art Collection, Milano; the Permanent Collection of the United States Library of Congress, Prints and Photographs Division, Washington, DC; il Mart Museum of Modern and Contemporary Art di Trento e Rovereto; la 500 Capp Street Foundation, San Francisco; MAXXI Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma; The Armory Show, New York e MACRO Testaccio, Roma. Tra i moltissimi grant e residency internazionali ricordiamo la sua partecipazione a Location One International Artist Residency Program a New York (2008), LMCC Lower Manhattan Cultural Council (2009), e il MIA Artist Space / Columbia University Department of Fine Arts (2010). Nel 2011 ha ricevuto il New York Exposure Prize ed è stato nominato per il prestigioso Deutsche Börse Photography Prize. Nel 2016, il Museo del Mart di Trento e Rovereto ha presentato la prima retrospettiva midcareer di Galvani in Europa. Nel 2017, il suo lavoro è stato selezionato per rappresentare la Deutsche Bank Collection a Frieze New York. Nel 2019 ha ricevuto il prestigioso Audemars Piguet Prize.

Alejandro Almanza Pereda nasce a Città del Messico nel 1977 e consegue un Master in Arte presso l’Hunter College di New York. Attualmente vive a Guadalajara in Messico. L’artista ha subito l’influenza del vivere in differenti zone del Messico e degli Stati Uniti d’America. Ha in questo modo sviluppato un profondo interesse per come le varie culture concepiscano il senso del pericolo e del rischio. La sua pratica si focalizza sull’ambito della materialità attraverso la creazione di oggetti “azzardati” in senso concettuale e fisico, come le sue sculture oppure le fotografie e video subacquei. Le proprie opere esplorano gli specifici paradigmi culturali di sicurezza, pericolo e architettura attraverso la giustapposizione di materiali e oggetti. Questi assemblaggi trasmettono un senso di tensione con specifiche indagini sui temi della fragilità, valore, peso e potere. Egli integra oggetti quotidiani in sculture in larga scala, che sfidano il tema della durabilità dell’oggetto e la sua capacità di creare una struttura stabile. L’uso frequente della luce al neon, per esempio, è dovuto in parte al suo interesse per la simultaneità della fragilità e della forza di questi oggetti, che possono infatti andare facilmente in frantumi, ma anche in qualche modo resistere a una significativa pressione. Traendo ispirazione dagli oggetti che seleziona, Almaza Pereda schiva la narratività in favore della materialità. Sebbene il suo lavoro risenta dell’influenza della natura morta di origine olandese, possono giungere al surreale, come accade nella serie di lavori più recenti che sperimentano la fotografia sott’acqua. Ha realizzato mostre personali in molte istituzioni come il San Francisco Art Institute; Museo El Eco, Città del Messico; Art in General New York; Stanley Rubin Center, El Paso TX; College of Wooster Art Museum Ohio; ChertLüdde a Berlino. Le sue opere sono state esposte alla Istanbul Biennal, ASU Museum; Museo de Arte Moderno, Mexico City; Dublin Contemporary 2011; 6a Bienal de Curitiba Brazil; El Museo del Barrio e the Queens Museum, entrambi a New York. Alejandro ha frequentato il programma di residenza Skowhegan and Bemis Art, ed è anche stato vincitore del CIFO Grant Program, the Harpo Foundation Grant program e the Harker Award for Interdisciplinary Studies. Il suo lavoro è entrato a far parte dell’Art 21 close up series. È attualmente membro di LA RUBIA TE BESA un progetto di Art band.
Alejandro Almanza Pereda nasce a Città del Messico nel 1977 e consegue un Master in Arte presso l’Hunter College di New York. Attualmente vive a Guadalajara in Messico. L’artista ha subito l’influenza del vivere in differenti zone del Messico e degli Stati Uniti d’America. Ha in questo modo sviluppato un profondo interesse per come le varie culture concepiscano il senso del pericolo e del rischio. La sua pratica si focalizza sull’ambito della materialità attraverso la creazione di oggetti “azzardati” in senso concettuale e fisico, come le sue sculture oppure le fotografie e video subacquei. Le proprie opere esplorano gli specifici paradigmi culturali di sicurezza, pericolo e architettura attraverso la giustapposizione di materiali e oggetti. Questi assemblaggi trasmettono un senso di tensione con specifiche indagini sui temi della fragilità, valore, peso e potere. Egli integra oggetti quotidiani in sculture in larga scala, che sfidano il tema della durabilità dell’oggetto e la sua capacità di creare una struttura stabile. L’uso frequente della luce al neon, per esempio, è dovuto in parte al suo interesse per la simultaneità della fragilità e della forza di questi oggetti, che possono infatti andare facilmente in frantumi, ma anche in qualche modo resistere a una significativa pressione. Traendo ispirazione dagli oggetti che seleziona, Almaza Pereda schiva la narratività in favore della materialità. Sebbene il suo lavoro risenta dell’influenza della natura morta di origine olandese, possono giungere al surreale, come accade nella serie di lavori più recenti che sperimentano la fotografia sott’acqua. Ha realizzato mostre personali in molte istituzioni come il San Francisco Art Institute; Museo El Eco, Città del Messico; Art in General New York; Stanley Rubin Center, El Paso TX; College of Wooster Art Museum Ohio; ChertLüdde a Berlino. Le sue opere sono state esposte alla Istanbul Biennal, ASU Museum; Museo de Arte Moderno, Mexico City; Dublin Contemporary 2011; 6a Bienal de Curitiba Brazil; El Museo del Barrio e the Queens Museum, entrambi a New York. Alejandro ha frequentato il programma di residenza Skowhegan and Bemis Art, ed è anche stato vincitore del CIFO Grant Program, the Harpo Foundation Grant program e the Harker Award for Interdisciplinary Studies. Il suo lavoro è entrato a far parte dell’Art 21 close up series. È attualmente membro di LA RUBIA TE BESA un progetto di Art band.
Matthew Ritchie nasce a Londra nel 1964, si laurea al Camberwell College of Art nel 1986 ed emigra negli Stati Uniti d’America nel 1987. Oggi vive e lavora a New York.
Le sue opere, quali installazioni ambientali di dipinti, disegni a parete, giochi, sculture, film e performance, rappresentano una continua indagine sull’idea di incarnazione dell’ informazione, esplorata tramite un universo condiviso di storie e immagini interconnesse che attingono dagli ambiti dell’arte, architettura, scienza, fantasia, sociologia, antropologia, mitologia, storia e delle dinamiche culturali, tutti uniti da un unico linguaggio visivo. Egli descrive generazioni di sistemi, idee e le loro relative interpretazioni in una sorta di ragnatela celebrale, concretizzando teorie di informazioni e ere effimere e intangibili in una forma gestuale unica e riconoscibile, che enfatizzi soprattutto le tracce della presenza umana.
Nel 1997, l’artista dà inizio a una serie di dipinti e installazioni intitolate The Main Sequence, che mirano a rappresentare visivamente la teoria del tutto tramite una narrazione frammentata. Ogni dipinto della serie si sviluppa come parte di un gioco interattivo che tenta di sintetizzare un intero campo di conoscenze, come quelle della fisica e biologia, tramite una storia stratificata ed immersiva. Matthew Ritchie è anche impegnato nel campo di ambiziosi progetti di arte pubblica, che proiettano complesse idee in spazi comunitari, focalizzandosi su progetti in cui il contenuto informativo del posto possa essere integrato nella forma architettonica del lavoro.
Negli ultimi anni, l’artista ha inoltre portato avanti un progetto per tracciare una storia visiva completa del segno di notazione o diagramma. Divisa in 3 parti: The Temptation of the Diagram, Surrender to the Diagram e The Demon in the Diagram, l’indagine ancora in corso si è manifestata in una serie di dipinti, performance, installazioni e una pubblicazione che esamina l’influenza del linguaggio notazionale sul sistema e sulla produzione del linguaggio. La raccolta di lavori più recenti di Matthew Ritchie, Time Diagrams, un’ambiziosa sequenza di 100 parti fra dipinti, pavimenti, pareti e performance, cerca di studiare la struttura e il linguaggio informativo della storia.
Ritchie ha esposto a livello internazionale negli ultimi vent’anni, incluse mostre personali presso Moody Center for the Arts at Rice University, Houston, TX (2018); Institute of Contemporary Art, Boston, MA (2014); ZKM Karlsruhe (2012); Barbican Theatre, Londra, UK (2012); Brooklyn Academy of Music (2009); NY, St. Louis Art Museum, MO (2007); MASS MoCA, North Adams, MA (2004); Contemporary Art Museum, Houston, TX (2003); and Dallas Museum of Art, TX (2001).
Recentemente è stato premiato del 2018-19 Dasha Zhukova Distinguished Visiting Artist al MIT Center for Art, Science & Technology. Le sue opere sono state esposte alla Whitney Biennial nel 1997, Sydney Biennale nel 2002, Bienal de Sao Paulo nel 2004, Seville Bienal nel 2008, Havana Bienal, e all’11esima Biennale Internazionale di Architettura di Venezia, Italia nel 2008; così come in importanti esposizioni presso il Solomon R. Guggenheim Museum, New York, NY; il Museum of Modern Art, New York, NY e il San Francisco Museum of Modern Art, CA.
Il suo lavoro è entrato a far parte di prestigiose collezioni permanenti come: Museum of Modern Art, New York, NY; Solomon R. Guggenheim Museum, New York, NY; Whitney Museum of American Art, New York, NY; San Francisco Museum of Modern Art, CA; Collezione Maramotti, Reggio Emilia, Italy; e the MIT List Visual Arts Center, Boston, MA fra le altre.
Matthew Ritchie nasce a Londra nel 1964, si laurea al Camberwell College of Art nel 1986 ed emigra negli Stati Uniti d’America nel 1987. Oggi vive e lavora a New York.
Le sue opere, quali installazioni ambientali di dipinti, disegni a parete, giochi, sculture, film e performance, rappresentano una continua indagine sull’idea di incarnazione dell’ informazione, esplorata tramite un universo condiviso di storie e immagini interconnesse che attingono dagli ambiti dell’arte, architettura, scienza, fantasia, sociologia, antropologia, mitologia, storia e delle dinamiche culturali, tutti uniti da un unico linguaggio visivo. Egli descrive generazioni di sistemi, idee e le loro relative interpretazioni in una sorta di ragnatela celebrale, concretizzando teorie di informazioni e ere effimere e intangibili in una forma gestuale unica e riconoscibile, che enfatizzi soprattutto le tracce della presenza umana.
Nel 1997, l’artista dà inizio a una serie di dipinti e installazioni intitolate The Main Sequence, che mirano a rappresentare visivamente la teoria del tutto tramite una narrazione frammentata. Ogni dipinto della serie si sviluppa come parte di un gioco interattivo che tenta di sintetizzare un intero campo di conoscenze, come quelle della fisica e biologia, tramite una storia stratificata ed immersiva. Matthew Ritchie è anche impegnato nel campo di ambiziosi progetti di arte pubblica, che proiettano complesse idee in spazi comunitari, focalizzandosi su progetti in cui il contenuto informativo del posto possa essere integrato nella forma architettonica del lavoro.
Negli ultimi anni, l’artista ha inoltre portato avanti un progetto per tracciare una storia visiva completa del segno di notazione o diagramma. Divisa in 3 parti: The Temptation of the Diagram, Surrender to the Diagram e The Demon in the Diagram, l’indagine ancora in corso si è manifestata in una serie di dipinti, performance, installazioni e una pubblicazione che esamina l’influenza del linguaggio notazionale sul sistema e sulla produzione del linguaggio. La raccolta di lavori più recenti di Matthew Ritchie, Time Diagrams, un’ambiziosa sequenza di 100 parti fra dipinti, pavimenti, pareti e performance, cerca di studiare la struttura e il linguaggio informativo della storia.
Ritchie ha esposto a livello internazionale negli ultimi vent’anni, incluse mostre personali presso Moody Center for the Arts at Rice University, Houston, TX (2018); Institute of Contemporary Art, Boston, MA (2014); ZKM Karlsruhe (2012); Barbican Theatre, Londra, UK (2012); Brooklyn Academy of Music (2009); NY, St. Louis Art Museum, MO (2007); MASS MoCA, North Adams, MA (2004); Contemporary Art Museum, Houston, TX (2003); and Dallas Museum of Art, TX (2001).
Recentemente è stato premiato del 2018-19 Dasha Zhukova Distinguished Visiting Artist al MIT Center for Art, Science & Technology. Le sue opere sono state esposte alla Whitney Biennial nel 1997, Sydney Biennale nel 2002, Bienal de Sao Paulo nel 2004, Seville Bienal nel 2008, Havana Bienal, e all’11esima Biennale Internazionale di Architettura di Venezia, Italia nel 2008; così come in importanti esposizioni presso il Solomon R. Guggenheim Museum, New York, NY; il Museum of Modern Art, New York, NY e il San Francisco Museum of Modern Art, CA.
Il suo lavoro è entrato a far parte di prestigiose collezioni permanenti come: Museum of Modern Art, New York, NY; Solomon R. Guggenheim Museum, New York, NY; Whitney Museum of American Art, New York, NY; San Francisco Museum of Modern Art, CA; Collezione Maramotti, Reggio Emilia, Italy; e the MIT List Visual Arts Center, Boston, MA fra le altre.

José Carlos Martinat nasce a Lima in Perù nel 1974, dove vive e lavora tuttora. La sua pratica si colloca al confine fra il mondo reale e virtuale e le sue fonti di ispirazione si rifanno all’architettura e al contesto urbano, alle memorie umane e tecnologiche.
Le sue installazioni multimediali e assemblaggi scultorei incorporano diversi materiali e strategie capaci di alterare i preconcetti in merito all’appartenenza delle cose, portando nel contesto della galleria ciò che è destinato alla strada, come una sorta di contemporaneo archeologo. Questo metodo estemporaneo si manifesta in numerose declinazioni. Le opere/insegna sono prodotte tramite il trasferimento di loghi di partiti politici, trovati sui muri della città, attraverso una pratica di distaccamento della superficie pittorica. Queste cosiddette Pintas sono delle appropriazioni di frammenti di slogan politici che terminano per entrare a far parte delle pareti delle gallerie d’arte. L’attrazione verso l’architettura modernista si mescola nel caso di Martinat, a una tendenza per una certa estetica del kitsch, che egli articola includendo loghi, colori stridenti e metodologie della street art.
La sua serie Ejercicios Superficiales comprende un insieme di lavori realizzati con differenti media,che evoca un’idea di superficialità nell’uso appunto di superfici prefabbricate ricoperte da graffiti.
Questa “superficialità” nelle intenzioni, o meglio il suo amore per le superficie, è presente anche nella composizione scultorea Monumentos Vandalizables – Abstracción del Poder presentata alla Biennale di Mercosul del 2009, dove frammenti di emblematici edifici progettati da Oscar Niemeyer per la futuristica Brasilia, sono costruiti in legno laccato bianco, e successivamente offerti ai visitatori della mostra per verniciarli a spruzzo con slogan, graffiti e altre tecniche di intervento. L’imbrattamento dell’icona potrebbe apparire come una boutade ribelle, che serve invece in realtà a perpetuare l’iconografia del modernismo. Potrebbe essere considerata inoltre, come una forza liberatrice di fronte al diffuso abuso di potere.
José Carlo Martinat ha proficuamente esposto a livello internazionale in istituzioni e eventi come: Perez art museum, Miami (2018); Luckman Fine Arts Complex, Los Angeles, (2017); Museo de Arte de Zapopán, México (2017); XII Bienal de la Habana, Cuba (2015); VII and X Mercosur Biennale, Brasile (2009 and 2015); Saatchi Gallery, Londra (2014); Tate Modern, Londra (2013); Biennale of Visual Arts, Irlanda (2012); Noord-Holland Biennale, Paesi Bassi (2012); Museum of Latin American Art, Los Angeles (2012); IX Shanghai Biennale, Cina (2012); Estação Pinacoteca, Brasile (2011); Museum of Contemporary Art, Miami (2011); Trienal Poligráfica de Puerto Rico, Puerto Rico (2009); Museo de ArteContemporáneo de Vigo, Spagna (2007); IFA (Germania), La Laboral, Spagna (2007); MALI, Lima (Lima), fra gli altri.
Le sue opere fanno parte di collezioni internazionali fra le quali: Tate Modern (Londra, UK), MoMA (New York, USA); Malba (Buenos Aires,Argentina); Saatchi Collection (Londra, UK); Mali (Lima, Perú). É rappresentato da Galería Leme di San Paolo e Revolver Galería (Lima-Perú e Buenos Aires-Argentina).
José Carlos Martinat nasce a Lima in Perù nel 1974, dove vive e lavora tuttora. La sua pratica si colloca al confine fra il mondo reale e virtuale e le sue fonti di ispirazione si rifanno all’architettura e al contesto urbano, alle memorie umane e tecnologiche.
Le sue installazioni multimediali e assemblaggi scultorei incorporano diversi materiali e strategie capaci di alterare i preconcetti in merito all’appartenenza delle cose, portando nel contesto della galleria ciò che è destinato alla strada, come una sorta di contemporaneo archeologo. Questo metodo estemporaneo si manifesta in numerose declinazioni. Le opere/insegna sono prodotte tramite il trasferimento di loghi di partiti politici, trovati sui muri della città, attraverso una pratica di distaccamento della superficie pittorica. Queste cosiddette Pintas sono delle appropriazioni di frammenti di slogan politici che terminano per entrare a far parte delle pareti delle gallerie d’arte. L’attrazione verso l’architettura modernista si mescola nel caso di Martinat, a una tendenza per una certa estetica del kitsch, che egli articola includendo loghi, colori stridenti e metodologie della street art.
La sua serie Ejercicios Superficiales comprende un insieme di lavori realizzati con differenti media,che evoca un’idea di superficialità nell’uso appunto di superfici prefabbricate ricoperte da graffiti.
Questa “superficialità” nelle intenzioni, o meglio il suo amore per le superficie, è presente anche nella composizione scultorea Monumentos Vandalizables – Abstracción del Poder presentata alla Biennale di Mercosul del 2009, dove frammenti di emblematici edifici progettati da Oscar Niemeyer per la futuristica Brasilia, sono costruiti in legno laccato bianco, e successivamente offerti ai visitatori della mostra per verniciarli a spruzzo con slogan, graffiti e altre tecniche di intervento. L’imbrattamento dell’icona potrebbe apparire come una boutade ribelle, che serve invece in realtà a perpetuare l’iconografia del modernismo. Potrebbe essere considerata inoltre, come una forza liberatrice di fronte al diffuso abuso di potere.
José Carlo Martinat ha proficuamente esposto a livello internazionale in istituzioni e eventi come: Perez art museum, Miami (2018); Luckman Fine Arts Complex, Los Angeles, (2017); Museo de Arte de Zapopán, México (2017); XII Bienal de la Habana, Cuba (2015); VII and X Mercosur Biennale, Brasile (2009 and 2015); Saatchi Gallery, Londra (2014); Tate Modern, Londra (2013); Biennale of Visual Arts, Irlanda (2012); Noord-Holland Biennale, Paesi Bassi (2012); Museum of Latin American Art, Los Angeles (2012); IX Shanghai Biennale, Cina (2012); Estação Pinacoteca, Brasile (2011); Museum of Contemporary Art, Miami (2011); Trienal Poligráfica de Puerto Rico, Puerto Rico (2009); Museo de ArteContemporáneo de Vigo, Spagna (2007); IFA (Germania), La Laboral, Spagna (2007); MALI, Lima (Lima), fra gli altri.
Le sue opere fanno parte di collezioni internazionali fra le quali: Tate Modern (Londra, UK), MoMA (New York, USA); Malba (Buenos Aires,Argentina); Saatchi Collection (Londra, UK); Mali (Lima, Perú). É rappresentato da Galería Leme di San Paolo e Revolver Galería (Lima-Perú e Buenos Aires-Argentina).


- Giulio Turcato

- Chico da Silva, 
- Jordy Kerwick

- Daria Dmytrenko






