Mythos Speculum
Nel 2018 l’artista greco Theo Triantafyllidis adotta per il suo avatar online (per uno di quegli autoritratti semi-pseudonimi e autoproclamati, attraverso i quali ci identifichiamo nelle comunità di Internet) l’aspetto di un orco. Guidato dall’interesse per la Monster Theory – concetto secondo cui il fascino della cultura pop per bestie, bruti, mostri e demoni rappresenti un disagio sociale pervasivo e promuova allarmismo o segregazione – e dall’ambizione di sostenere il già avanzato movimento queer di identificazione nella specie fantasy, Triantafyllidis presenta il suo alter-ego orco come una donna butch in bikini con bicipiti sporgenti, capelli blu e denti simili a zanne. Dopo essere stata a lungo considerata una figura malvagia, a causa di stereotipi razziali codificati e di rappresentazioni discriminatorie all’interno di alcune sottoculture, negli ultimi anni l’estetica degli orchi ha iniziato a essere rivista e rivalutata. Gli orchi vengono eletti dalle comunità online, da coloro che provano empatia con l’esperienza di essere “altri”, così la loro crescente popolarità e visibilità all’interno delle comunità online ha incoraggiato gli sviluppatori di videogiochi e gli scrittori cinematografici o televisivi a allargare ulteriormente il loro background e la loro profondità come specie. Questa recente rivalutazione è messa in primissimo piano nell’opera dell’artista del 2022 “Ork Haus”. In parte satira che simula il Metaverso, in parte performance-purgatorio improvvisata, l’opera mostra una famiglia di demoni verdi all’interno di un ecosistema autonomo digitale in stile Sims, una realtà virtuale impermeabile alle influenze esterne.
Mentre i componenti della famiglia sono limitati ai confini generati dal computer, costretti a una mondanità obbligatoria che ricorda stranamente i recenti blocchi indotti dalla pandemia, lo spettatore invece è invitato a testimoniare voyeuristicamente l’adattamento dell’unità familiare alla convivenza quasi costante, mentre (lavorano) da casa e intraprendono quei compiti ripetitivi di cui nemmeno la tecnologia può liberarci: mangiare, dormire, espellere, ripetere.
In un’epoca in cui viviamo sempre più la nostra vita online, gli avatar sopra menzionati, così come i profili personalizzati e le fotografie filtrate, sono rapidamente diventati uno strumento attraverso il quale possiamo esplorare, stabilire ed esprimere la nostra identità. Una sorta di metamorfosi del 21° secolo guidata da algoritmi, motori di gioco e intelligenza artificiale. Diversamente da Triantafyllidis, Adam Bilardi preferisce un’autoriflessione più diretta, quasi romantica, dipingendo il suo doppelganger dalla mascolinità muscolosa e omogenea. Due figure quasi identiche con labbra carnose, sopracciglia perfettamente depilate e mascelle
cesellate lottano a braccio di ferro, si stringono la mano, si toccano le lingue e sussurrano l’uno all’orecchio dell’altro. Né amico, né nemico, i due sono illuminati dalla luna e dall’atmosfera screziata del crepuscolo o della luce dell’alba, la quale proietta ombre nette sui loro sorprendenti lineamenti simmetrici. Sembrano impegnati in una sorta di competizione combattiva confidenziale, che viene effettivamente indicata dai titoli illustrativi del pittore parigino: “Make or Break“, “We Played, We Lost” o “It’s Just a Game“.
La domanda – come parli a te stesso allo specchio? – risuona costantemente nel guardare i dipinti. All’interno delle scene cinematografiche di Bilardi, ritagliate con cura e costruite centralmente, le controparti clonate mostrano un’immediata intimità l’una con l’altra, pur conservando la stentata freddezza degli estranei. Si stagliano davanti a noi quelle impersonificazioni combattute di sé stessi e della propria interiorità come simboli di autosconfitta o autodisciplina; emblemi della repressione emotiva per cui tutto diventa una scommessa, una guerra, un braccio di ferro.
Durante il suo periodo di educazione artistica, il giovane Bilardi era stato scoraggiato dal rappresentare tali emozioni interiori e dall’avvicinarsi a tali rappresentazioni di passione o dolore idealizzati. E così ha sostituito l’uomo al migliore amico dell’uomo. Da allora, i cani sono ricorsi nei suoi dipinti al posto dei loro compagni umani, diventando ulteriori controfigure che consentono all’artista di intrufolarsi nell’espressione di sé ed esaminare quell’interconnessione. I cani, con la loro leggendaria lealtà e l’empatia attribuitagli, sono candidati convenzionali per l’interpretazione antropomorfica o metamorfica. Ad esempio, l’omonima Dogmother di un popolare racconto Tamil – che diede alla luce e allevò cuccioli umani – è posta a cavalcioni su uno dei “Vasi per l’adempimento” di Anousha Payne. Payne, di doppia eredità indiana e irlandese, si rivolge spesso alla mitologia dell’Asia meridionale o alla corrispondente tradizione celtica come mezzo per comprendere e costruire l’identità. Radicati nella tradizione orale, i narratori e l’atto di raccontare diventano importanti quanto i racconti stessi. E così, le sculture dell’artista sembrano in grado di cambiare forma tra oggetti d’arte estetici e forme funzionali convenzionali da cui prendono in prestito, diventando fornitori, rituali o religiosi, di sostentamento e nutrimento. Mettendo in primo piano quella fluidità folcloristica tra umanità, flora e fauna, nutrono gli ideali dell’animismo, l’idea che tutto, anche ciò che è intrinsecamente inanimato, è intriso di un’essenza spirituale sottostante e di un’azione incorporata.
Payne, quindi, non solo porta avanti quella lunga tradizione di recital ripetuti, rendendoli momentaneamente materiali, ma reinventa anche tali miti per i tempi moderni. I gioielli d’oro pendono invariabilmente dalla miriade di volti del vaso, illuminando le gerarchie obsolete che designano l’importanza di un oggetto in conformità con un valore immaginario o inventato. Altrove, le mani performative sono in posa e in bilico, riflettendo i gesti del Bharatanatyam, coreografia classica comune all’India meridionale che esprime preoccupazioni religiose e spirituali attraverso un sottile gioco di gambe, espressioni facciali, gesti delle mani e linguaggio del corpo. Un altro dei “Vasi per l’adempimento” di Payne presenta tre teste umane che fiancheggiano la caraffa centrale. Ricorda una testa Corleck dell’età del ferro, un simbolo devozionale tricefalo celtico o una statua che denota la trinità. Per l’artista ogni testa è un omaggio alla trinità matriarcale all’interno del proprio albero genealogico.
Luisa Me – una coppia di artisti dicefali con un nom de plume rubato da un colloquialismo italiano tradotto come “lui con me” – si rivolgono regolarmente all’iconografia religiosa e alle allegorie storico-artistiche per esaminare le dualità dell’identità, che emergono acutamente all’interno della pratica artistica. Esistendo in una realtà in qualche modo sospesa, definita dai confronti e dalle contraddizioni tra la loro infanzia soleggiata sulla costa pesarese e l’ambiente postindustriale del loro studio nel sud di Londra, la loro continua ricerca di equilibrio artistico viene espressa attraverso autoritratti introspettivi. Due figure in contatto fisico quasi costante, che si spingono, si tirano e si appoggiano l’una all’altra per un sostegno letterale (e possiamo immaginare metaforico). Ciascuno a turno sostiene il peso del partito allora più debole. Recentemente, tuttavia, hanno iniziato a esplorare maggiormente l’antropomorfismo architettonico per esprimere la loro doppia identità. Qui, i comignoli nei loro consueti abiti autunnali a quadretti conversano tra loro, mentre gli ombrelloni sbiaditi e sbiancati dal sole si ergono come stoiche sentinelle delle onde e le onde stesse, con le loro punte triangolari, formano espressioni forzate. Entrambi hanno un aspetto totemico e proliferano in modo dilagante, come in un’osservanza cerimoniale di qualche evento esterno, come icone dei cambiamenti liminali inerenti a uno stile di vita stagionale, ma riluttanti o incapaci di abbracciare pienamente entrambe le continuazioni. L’ombrellone fornisce ombra dal caldo estivo implacabile, il camino funge da canna fumaria per il fuoco sottostante che riscalda l’inverno.
Hector Campbell
Nel 2018 l’artista greco Theo Triantafyllidis adotta per il suo avatar online (per uno di quegli autoritratti semi-pseudonimi e autoproclamati, attraverso i quali ci identifichiamo nelle comunità di Internet) l’aspetto di un orco. Guidato dall’interesse per la Monster Theory – concetto secondo cui il fascino della cultura pop per bestie, bruti, mostri e demoni rappresenti un disagio sociale pervasivo e promuova allarmismo o segregazione – e dall’ambizione di sostenere il già avanzato movimento queer di identificazione nella specie fantasy, Triantafyllidis presenta il suo alter-ego orco come una donna butch in bikini con bicipiti sporgenti, capelli blu e denti simili a zanne. Dopo essere stata a lungo considerata una figura malvagia, a causa di stereotipi razziali codificati e di rappresentazioni discriminatorie all’interno di alcune sottoculture, negli ultimi anni l’estetica degli orchi ha iniziato a essere rivista e rivalutata. Gli orchi vengono eletti dalle comunità online, da coloro che provano empatia con l’esperienza di essere “altri”, così la loro crescente popolarità e visibilità all’interno delle comunità online ha incoraggiato gli sviluppatori di videogiochi e gli scrittori cinematografici o televisivi a allargare ulteriormente il loro background e la loro profondità come specie. Questa recente rivalutazione è messa in primissimo piano nell’opera dell’artista del 2022 “Ork Haus”. In parte satira che simula il Metaverso, in parte performance-purgatorio improvvisata, l’opera mostra una famiglia di demoni verdi all’interno di un ecosistema autonomo digitale in stile Sims, una realtà virtuale impermeabile alle influenze esterne.
Mentre i componenti della famiglia sono limitati ai confini generati dal computer, costretti a una mondanità obbligatoria che ricorda stranamente i recenti blocchi indotti dalla pandemia, lo spettatore invece è invitato a testimoniare voyeuristicamente l’adattamento dell’unità familiare alla convivenza quasi costante, mentre (lavorano) da casa e intraprendono quei compiti ripetitivi di cui nemmeno la tecnologia può liberarci: mangiare, dormire, espellere, ripetere.
In un’epoca in cui viviamo sempre più la nostra vita online, gli avatar sopra menzionati, così come i profili personalizzati e le fotografie filtrate, sono rapidamente diventati uno strumento attraverso il quale possiamo esplorare, stabilire ed esprimere la nostra identità. Una sorta di metamorfosi del 21° secolo guidata da algoritmi, motori di gioco e intelligenza artificiale. Diversamente da Triantafyllidis, Adam Bilardi preferisce un’autoriflessione più diretta, quasi romantica, dipingendo il suo doppelganger dalla mascolinità muscolosa e omogenea. Due figure quasi identiche con labbra carnose, sopracciglia perfettamente depilate e mascelle
cesellate lottano a braccio di ferro, si stringono la mano, si toccano le lingue e sussurrano l’uno all’orecchio dell’altro. Né amico, né nemico, i due sono illuminati dalla luna e dall’atmosfera screziata del crepuscolo o della luce dell’alba, la quale proietta ombre nette sui loro sorprendenti lineamenti simmetrici. Sembrano impegnati in una sorta di competizione combattiva confidenziale, che viene effettivamente indicata dai titoli illustrativi del pittore parigino: “Make or Break“, “We Played, We Lost” o “It’s Just a Game“.
La domanda – come parli a te stesso allo specchio? – risuona costantemente nel guardare i dipinti. All’interno delle scene cinematografiche di Bilardi, ritagliate con cura e costruite centralmente, le controparti clonate mostrano un’immediata intimità l’una con l’altra, pur conservando la stentata freddezza degli estranei. Si stagliano davanti a noi quelle impersonificazioni combattute di sé stessi e della propria interiorità come simboli di autosconfitta o autodisciplina; emblemi della repressione emotiva per cui tutto diventa una scommessa, una guerra, un braccio di ferro.
Durante il suo periodo di educazione artistica, il giovane Bilardi era stato scoraggiato dal rappresentare tali emozioni interiori e dall’avvicinarsi a tali rappresentazioni di passione o dolore idealizzati. E così ha sostituito l’uomo al migliore amico dell’uomo. Da allora, i cani sono ricorsi nei suoi dipinti al posto dei loro compagni umani, diventando ulteriori controfigure che consentono all’artista di intrufolarsi nell’espressione di sé ed esaminare quell’interconnessione. I cani, con la loro leggendaria lealtà e l’empatia attribuitagli, sono candidati convenzionali per l’interpretazione antropomorfica o metamorfica. Ad esempio, l’omonima Dogmother di un popolare racconto Tamil – che diede alla luce e allevò cuccioli umani – è posta a cavalcioni su uno dei “Vasi per l’adempimento” di Anousha Payne. Payne, di doppia eredità indiana e irlandese, si rivolge spesso alla mitologia dell’Asia meridionale o alla corrispondente tradizione celtica come mezzo per comprendere e costruire l’identità. Radicati nella tradizione orale, i narratori e l’atto di raccontare diventano importanti quanto i racconti stessi. E così, le sculture dell’artista sembrano in grado di cambiare forma tra oggetti d’arte estetici e forme funzionali convenzionali da cui prendono in prestito, diventando fornitori, rituali o religiosi, di sostentamento e nutrimento. Mettendo in primo piano quella fluidità folcloristica tra umanità, flora e fauna, nutrono gli ideali dell’animismo, l’idea che tutto, anche ciò che è intrinsecamente inanimato, è intriso di un’essenza spirituale sottostante e di un’azione incorporata.
Payne, quindi, non solo porta avanti quella lunga tradizione di recital ripetuti, rendendoli momentaneamente materiali, ma reinventa anche tali miti per i tempi moderni. I gioielli d’oro pendono invariabilmente dalla miriade di volti del vaso, illuminando le gerarchie obsolete che designano l’importanza di un oggetto in conformità con un valore immaginario o inventato. Altrove, le mani performative sono in posa e in bilico, riflettendo i gesti del Bharatanatyam, coreografia classica comune all’India meridionale che esprime preoccupazioni religiose e spirituali attraverso un sottile gioco di gambe, espressioni facciali, gesti delle mani e linguaggio del corpo. Un altro dei “Vasi per l’adempimento” di Payne presenta tre teste umane che fiancheggiano la caraffa centrale. Ricorda una testa Corleck dell’età del ferro, un simbolo devozionale tricefalo celtico o una statua che denota la trinità. Per l’artista ogni testa è un omaggio alla trinità matriarcale all’interno del proprio albero genealogico.
Luisa Me – una coppia di artisti dicefali con un nom de plume rubato da un colloquialismo italiano tradotto come “lui con me” – si rivolgono regolarmente all’iconografia religiosa e alle allegorie storico-artistiche per esaminare le dualità dell’identità, che emergono acutamente all’interno della pratica artistica. Esistendo in una realtà in qualche modo sospesa, definita dai confronti e dalle contraddizioni tra la loro infanzia soleggiata sulla costa pesarese e l’ambiente postindustriale del loro studio nel sud di Londra, la loro continua ricerca di equilibrio artistico viene espressa attraverso autoritratti introspettivi. Due figure in contatto fisico quasi costante, che si spingono, si tirano e si appoggiano l’una all’altra per un sostegno letterale (e possiamo immaginare metaforico). Ciascuno a turno sostiene il peso del partito allora più debole. Recentemente, tuttavia, hanno iniziato a esplorare maggiormente l’antropomorfismo architettonico per esprimere la loro doppia identità. Qui, i comignoli nei loro consueti abiti autunnali a quadretti conversano tra loro, mentre gli ombrelloni sbiaditi e sbiancati dal sole si ergono come stoiche sentinelle delle onde e le onde stesse, con le loro punte triangolari, formano espressioni forzate. Entrambi hanno un aspetto totemico e proliferano in modo dilagante, come in un’osservanza cerimoniale di qualche evento esterno, come icone dei cambiamenti liminali inerenti a uno stile di vita stagionale, ma riluttanti o incapaci di abbracciare pienamente entrambe le continuazioni. L’ombrellone fornisce ombra dal caldo estivo implacabile, il camino funge da canna fumaria per il fuoco sottostante che riscalda l’inverno.
Hector Campbell